Il mio paese natale   8 comments

 Roma caput mundi et Camaior secundi! Mi piace presentare così il mio bel paese natio, il cui nome deriva dal latino Campus Major, ovvero campo maggiore. Il paese è sorto da un antico accampamento romano. Ecco perché noi camaioresi ci vantiamo delle nostre origini. Camaiore è in provincia di Lucca ed è situato nell’entroterra versiliese. Dista circa  dieci chilometri dal mare e Lido di Camaiore fa parte del suo Comune. È pianeggiante ed è circondato da monti e colline che gli fanno da corona. Alle spalle si trovano i monti: Pania e Gabberi, che fanno parte della catena delle Alpi Apuane, davanti  le colline: Pedona e S. Lucia che digradano verso il mare. Il verde è lussureggiante, sarà forse per il fatto che ci  piove molto. Infatti c’è un detto che dice: quando Pedona mette il cappello, camaioresi aprite l’ombrello!

In effetti era così, dalla casa vedevamo la collina, ricordo bene le esclamazioni della mamma : “mamma mia ‘om’è nera Pedona! Devo anda’ a piglia’ i cenci, fòri, sennò mi si bagnino tutti!”.(Devo andare a prendere i panni fuori altrimenti si bagnano).

La nostra abitazione era ubicata tra la Chiesa dell’Angelo e la canonica del Priore. Spesso la Chiesa fungeva da nascondiglio quando giocavamo a rimpiattino. Il Priore era un omone alto, grosso, con la pancia prominente, camminava con passo spedito a testa alta, come a voler dire: guardatemi tutti, passo io! Portava un grosso anello al dito con una pietra viola, noi bambini qualche volta glielo baciavamo (forse per gioco) e lui ci concedeva la mano con fare altezzoso. La sua perpetua era una donnina simpatica. Quando faceva le ostie per la chiesa i ritagli li dava a noi bambini da mangiare. Non sapevano di nulla, erano insipidi. Nella mia ignoranza, pensavo che l’ostia consacrata,  fosse più buona, dolce. Quando la sentii il giorno della mia prima comunione rimasi delusa, aveva lo stesso sapore insipido dell’ostia della perpetua. Sicuramente non avevo capito il concetto.

La domenica pomeriggio andavamo a passeggiare in via di Mezzo. Naturalmente ci mettevamo tutti “in ghingheri”. Noi bambini indossavamo i vestiti della festa. La mamma pettinava me e mia sorella mettendoci dei fiocchi tra i capelli, per ultimo ci metteva le collane. Ricordo che ci chiamava così: “Annamarì! Rita! Venite che vi metto i ‘vezzini’!” Apriva il primo cassetto del ‘canterale’ (il comò) dove c’erano le cose più preziose e tirava fuori i ‘vezzi’. Il mio era celeste per via del colore dei miei occhi, invece quello della Rita era rosso perché, avendo mia sorella gli occhi neri, la mamma era convinta che le si addicesse quel colore.

I miei genitori  mi sono rimasti impressi  vestiti così: la mamma con una giacca bianca a tre quarti, con le spalle larghe, la gonna stretta di velluto verde scuro a coste, i sandali con il tacco alto e le calze fine con la cucitura dietro. Era così elegante… Il papà lo rammento con un  vestito completo a doppio petto blu, gli stava così bene… Era un bell’uomo, alto, magro, con un bel portamento. Era ambizioso e teneva molto al suo aspetto fisico. La mamma, in tono canzonatorio, lo chiamava: “lo  spaccone”.   Un particolare: la mamma quando infilava le calze metteva i guanti per paura di romperle, diceva che erano di lusso e costose. Alle volte succedeva che si smagliassero, in quel caso le portava a riparare in merceria dalla Maria Grazia, una bella ragazza, che con una macchinetta elettrica riusciva a rammagliare i fili senza che si vedesse nulla.

Tutti tirati a lustro, andavamo a fare la “passarella” su e giù per il  Corso, dopodiché ci fermavamo ai giardinetti dove c’era puntualmente il fotografo Barsottelli. Era un omino piccolo, con una gran massa di capelli ricci, indossava un trench beige ed aveva la macchina fotografica molto grande. Ci dava disposizioni ben precise su come stare in posa e finché non era soddisfatto non ci immortalava. Periodicamente, man mano che crescevamo, la mamma ci faceva fotografare. Grazie a quell’abitudine io e i miei fratelli possiamo godere di belle foto-ricordo.

In ultimo andavamo alla Badia. È una chiesa ben conservata in stile romanico del XIII secolo. In un angolo della chiesa c’era un quadro della Madonna e sotto di esso un recipiente contenente dell’olio santo. La mamma ne prendeva un po’ con il dito e poi ungeva la gola a tutti noi, compreso il papà. Dopo questo rito, che si ripeteva ogni domenica, tornavamo a casa. Ricordo appena varcata la soglia, la mamma quasi sempre soleva dire: “Ecco, siamo rientrati nelle catacombe!” Si riferiva alla cucina la cui finestra dava sulla corte interna ed era poco illuminata.

Avrei ancora tante cose da raccontare come; la festa del Corpus Domini. Era usanza fare i tappeti per terra, nelle due vie principali dove passava la processione. I volontari (io li chiamo artisti!) lavoravano tutta la notte per realizzarli. I tappeti li facevano con la pula, una segatura, di vari colori. La lavoravano a motivi geometrici e floreali, in mezzo disegnavano a carboncino i volti di Madonne, Angeli, erano bellissimi! E che dire della processione di Gesù morto che si svolgeva ogni tre anni il venerdì santo? Dicono sia una ricorrenza molto antica. La processione iniziava alle nove di sera. Il Comune staccava la corrente elettrica e il paese rimaneva  illuminato solo dai lumini alimentati con l’olio d’oliva. Le case erano tutte tappezzate dalle luminarie: era tutto così suggestivo!

In un silenzio di tomba partiva il corteo funebre dalla Chiesa dei Dolori. In testa c’erano gli uomini della misericordia, tutti vestiti di nero, incappucciati e con la torcia accesa in mano. Poi seguiva il palco, portato in spalla, con le statue della Madonna vestita di nero e trafitta da sette spade, San Giovanni e Maria Maddalena con indosso dei mantelli dai colori sgargianti e Gesù deposto dalla croce. In coda c’erano la banda e il coro diretto dal maestro Donati.

Commovente quando, accompagnato dalla musica, il coro cantava : “Stava Maria dolente, senza respiro e voce, mentre pendeva in croce il Cristo Redentor”…

È difficile spiegare  l’atmosfera che regnava in quei momenti, sembrava tutto così irreale, come un sogno. Per non parlare poi della festa di Santa Maria (Ferragosto). Il pomeriggio in Piazza Grande c’era la tombola a cui partecipavano tutti, una vera festa!. Il papà quel giorno comprava un grosso cocomero e lo metteva in fresco col ghiaccio in un catino di rame. Il ghiaccio andava a comprarlo alla ghiacciaia “dietro i fossi”. Allora non avevamo ancora il frigorifero e per tenere la roba in fresco dovevamo fare così.

Anche la festa dei morti (Ognissanti) era bella. Si trattava di una fiera che durava tre dì. In quei giorni via di Mezzo era il centro del mondo. Gremita di gente, di bancarelle stracolme di varie mercanzie, di grida dei rivenditori, di profumi… quei profumi così forti e buoni: di zucchero filato, di mandorle tostate, di brigidini all’anice, di liquirizia. Sul Prado, oltre al mercato del bestiame c’era il Luna Park. Che divertimento guidare le macchinine autoscontro accompagnati dalla canzone in voga: “Oh please, stay with me, Diana”…

Ho vissuto a Camaiore fino all’età di tredici anni, lì ho passato una bella infanzia, lì ho provato le prime emozioni, per questo lo porto e lo porterò per sempre nel mio cuore

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

La voce del padrone   2 comments

Da tanto tempo i miei genitori avevano intenzione di comperare la radio. Quello che li tratteneva dal farlo erano i soldi, costava cara e all’epoca era considerata un bene di lusso. dopo tanti ripensamenti finalmente decisero di comprarla a rate e la ordinarono.

Nel frattempo papà fece una mensola di legno per collocarla in bella vista in salotto. Naturalmente non vedevamo l’ora di vederla.

Ricordo bene la scena di quando arrivò il rivenditore con un grosso scatolone con su la scritta: “Radio Marelli”. Era un bel tipo il signor Bolletti, moro con gli occhi neri e molto gentile. Indossava un trench  grigio e calzava un cappello messo sulle “ventitrè” alla Humphrey Bogart, aveva un  abbigliamento simile a quello che l’attore portava nel film Casablanca, gli assomigliava.

Tirò fuori la radio dallo scatolone e la posizionò sulla mensola. Era un bell’oggetto, faceva un figurone…di legno di noce, con l’altoparlante dorato, il quadrante di vetro, aveva solo tre manopole: una serviva per accendere e regolare il tono, l’altra per sintonizzare le stazioni, la terza per le frequenze. Sotto l’altoparlante c’era una mascherina con raffigurato un cane seduto che ascoltava un grammofono e sopra di essa la scritta: “La voce del padrone”.

Dopo aver spiegato alla mamma le varie funzioni, il signor Bolletti l’ accese. Subito si illuminò di verde l’occhietto magico, dopo alcuni secondi iniziò la musica e una voce maschile intonò: Perché non sognar? Perché non sperar? Ch’io possa rivederti un attimo… mormorarti ancor che l’anima, si illumina di te…Di te primo amor, di te grande amor, risento i dolci baci trepidi…. La mamma tutta contenta e incredula si rivolse a me esclamando: Senti Annamari? Neanche l’avessero fatto apposta, è proprio la canzone che mi garba tanto!

(Oggi sono andata a cercare il cantante su internet e ho scoperto che si trattava di Claudio Villa).

Non ricordo esattamente l’anno in cui comperarono la radio, forse era il 1950, 51 ero piccola, eppure rammento tutto così bene. Sicuramente ero una bambina curiosa, ma il merito della mia memoria fu soprattutto dei miei genitori i quali ci rendevano partecipi delle loro cose.

Ad esempio quando andavano al cinema, il giorno dopo ci raccontavano la trama del film che avevano visto, descrivendoci con enfasi i personaggi, gli attori, i costumi e noi bambini lì ad ascoltarli a bocca aperta!

Comunque la forza trainante era la mamma, era estroversa, aperta, affettuosa, parlava molto, come una radio sempre accesa. Quando papà non ne poteva più, in tono scherzoso, le diceva: Adriana!  Spengi la voce del padrone!

Risentii per caso la canzone qualche anno fa, riproposta da Nilla Pizzi in una trasmissione televisiva, mi commossi tanto… anche perché la mamma era morta da poco.

Ogni tanto mi sorprendo a canticchiarla e allora, in un flash rivedo: la radio nuova di zecca sulla mensola, il signor Bolletti e la mia mamma che ride tutta contenta!

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Il trasporto   13 comments

Può sembrare che voglia parlare di sentimento amoroso, non so… provare un impulso irresistibile per una persona, sentirsi “trasportata” verso di essa da una passione travolgente. Oppure, il “trasporto” inteso come un mezzo per intraprendere un viaggio…

No, non è di questo che desidero ragionare bensì del trasporto funebre”!

Non è poi un argomento così lugubre, anzi, lo ricordo come una cosa folcloristica. Quand’ero bambina, tutti i funerali passavano da via di Mezzo per andare al cimitero. Era come se avessero dovuto fare la “passerella”, con la gente ai bordi della strada . Non essendo coinvolta emotivamente, li osservavo con curiosità e scorgevo anche i lati buffi.

In testa c’erano gli uomini della Compagnia al quale il defunto apparteneva, due portavano il lanternone. Ogni Chiesa aveva la sua confraternita e si distingueva per i colori delle mazzette il copri spalle tipo mantellina con il cappuccio. A me piaceva molto quella appartenente alla Chiesa del Suffragio, era più suggestiva e consona per un corteo funebre.

Dietro c’era il parroco con il turibolo contenente l’incenso e due chierichetti.Uno era così bellino, mi garbava tanto,  purtroppo si fece prete!

Seguiva la bara portata a spalla, i parenti tutti compunti nel loro dolore, gli amici e i conoscenti. In coda c’erano le orfanelle del convento di San Francesco, vestite con una mantella marrone abbottonata con due alamari d’ottone e la papalina in capo. Ognuna di loro aveva una candela accesa in mano.

Che tristezza farle partecipare ai funerali, già erano senza genitori… Ma alcune monache non avevano gran cuore! Lo dico perché ho avuto modo di conoscerne. Però devo ammettere che avevano tanti pregi, come insegnare l’educazione, le buone maniere, il rispetto, la disciplina, la musica, il canto, il ricamo. Suor Orsolina ci insegnava persino a soffiarci il naso con un certo contegno!

Ma torniamo al corteo. Se il trapassato era stata una persona importante, oppure agiata, era accompagnato dalla banda municipale e con il suono della marcia funebre il trasporto era davvero bello e struggente. Infatti si usava  dire: “Che bel funerale è stato, quanta gente e quanti fiori c’erano!” Anche questo era un argomento per parlare e commentare.

Allora Camaiore era come una grande famiglia, tutti sapevano tutto di tutti; certo, c’erano i pettegolezzi, le maldicenze, ma, come dice una bella canzone di Giorgio Gaber, c’era partecipazione, che voleva dire condivisione, esserci, insomma, si trattava del cosiddetto calore umano, che nelle situazioni dolorose era consolatorio.

Una volta toccò a me fare la “passerella”. Fu per il funerale della mia nonna paterna . Io e mia sorella Maria Rita eravamo subito  dietro la bara con un mazzo di fiori in mano. A me sembrò così imbarazzante  passare in mezzo a tutta quella gente e dover assumere un’espressione addolorata, anche perché non lo ero. Ero piccola e la nonna l’avevo conosciuta poco, dato che era stata malata. A peggiorare le cose ci si misero le mie tre amichette, Paola, Melania e Mariella, le quali mi accompagnarono per tutto il tragitto, fino al cimitero, guardandomi ridendo…Fu difficile restar seria. La mamma mi rimproverò tanto.

Il primo dolore che sentii  fu per un ragazzo della mia età, Romeo. Morì tragicamente in un incidente stradale. Lo esposero nella chiesa del Suffragio,  mi fece tanta  impressione, ci rimasi così male che da quel giorno i funerali non mi interessarono più.

Ho voluto descrivere i miei “trasporti”, perché fanno parte del prezioso bagaglio dei ricordi. Li osservavo con gli occhi ingenui di una bambina, era come assistere a sfilate pittoresche,  o processioni, niente di più, per questo li trovavo belli e interessanti.

Certo, con il dolore, quello vero, non si può scherzare. Però il lato comico c’è in quasi tutte le situazioni, anche nelle più tragiche. Alle volte diventa una necessità  minimizzare, sdrammatizzare,  per poter sopravvivere con meno angosce a questa bella, tremenda, misteriosa, tragicomica vita!

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Il computer   2 comments

4 Novembre,  2011

 

Evviva! Sto imparando qualcosa al computer. Finalmente ho deciso di comperarlo, e pian piano sto prendendo confidenza con esso. Tempo addietro non sognavo neppure lontanamente di poter imparare delle cose con questo bellissimo strumento.

Non mi sembrava adatto per le mie capacità , dicevo: è roba per giovani, loro sono nati praticamente con il computer in mano, hanno la mente a aperta, noi “anziani” invece siamo rimasti indietro. La tecnologia ha fatto dei passi da gigante, è stato tutto così repentino, che non siamo riusciti a d andare di pari passo con essa, è già tanto se sono riuscita ad imparare a mandare i messaggini con il telefonino, commentavo tra me e me…..Invece mai dire mai! Nothing is impossible

Sto frequentando un corso di computer  insieme a Gabriella e Marcella. L’ insegnante è un ragazzo nigeriano, Ettore, (fa parte dell’CESS Stranieri/ Multietnica Zona di Senigallia) simpatico e paziente, visto che noi “ragazze” siamo delle alunne indisciplinate.C’è la sig.ra Linda che è una persona molto gioviale.Ci sono altri ragazzi di varie nazionalità.Mi piace questa multietnia! Auguro a tutti  questi giovani di imparare presto sia al computer che la nostra lingua ed inserirsi bene nel nostro paese!

NEVER SAY NEVER!

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

La Farfalla   2 comments

Senigallia, 6 Ottobre, 2011

Oggi pomeriggio stavo prendendo il sole in giardino e pensavo: che bella giornata!

Bisogna che ne approfitti, chissà … forse potrebbe essere l’ ultimo giorno di caldo, visto che siamo già in ottobre.

Mentre stavo crogiolandomi tutta beata in quei pensieri, sono stata attirata dalla presenza di una bellissima farfalla . Dopo aver volato per  due o tre volte intorno alla mia persona , si è posata per terra  a pochi metri da me .

Ed è rimasta lì per alcuni minuti , come se avesse voluto fare una bella mostra di sé. Ogni tanto apriva e chiudeva le ali, ed io ho avuto così modo di osservarla bene.

Era di tre colori: arancione, nero e marrone, sulle ali aveva disegnati  due cerchi  come fossero stati due occhi…Stupenda!!!

Mentre stavo ammirandola mi è venuto in mente che era  il 6 ottobre , San Bruno, ossia l’onomastico di mio marito, ho subito associato la farfalla a lui, era un segno?  Non lo so.

Però, successivamente mi sono ricordata di un altro episodio significativo, cioè; quando l’ otto agosto scorso (il compleanno di Bruno ) mio figlio Gianluca presentò il suo libro “Cassonetti “ alla rotonda a mare qui a Senigallia.

Mentre stava leggendo un paragrafo dedicato al suo papà, improvvisamente dall’ alto  spuntò un grosso farfallone e si andò a posare sul palco restando immobile fino alla fine della presentazione del libro.

Queste due cose hanno un significato? Sono delle casualità? C’è chi dice che bisogna prestare attenzione a tutto quello che ci capita anche alle cose più banali, perché ogni accadimento ha una sua importanza, basta saperlo scorgere.

Tuttavia non c’è una risposta a tutto questo, però, questi avvenimenti ci consolano e nello stesso tempo ci affascinano, ci inducano anche a porci delle domande, e perché no? Anche a farci compagnia!

In questo preciso istante proprio mentre ho finito di leggere il racconto, un grosso zanzarone o libellula? Non so come si chiama… si è posata sulla tastiera del computer, non ho parole…

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

L’importanza dei ricordi   Leave a comment

C’è chi dice che esiste solo il presente che non bisogna guardare indietro, sono convinta che i ricordi belli o brutti non vadano cancellati. Sono il nostro bagaglio, senza di essi non avremmo memoria, ci hanno insegnato  a vivere ed anche le sofferenze sono state utili per poter vedere l’aspetto positivo delle cose.

Per me i ricordi sono: nostalgia, sensi di colpa, malinconia, amore, sentimenti che a volte fanno soffrire, ma se non ci fosse nulla di tutto ciò ci sarebbe il vuoto e niente avrebbe senso. Certo io sono nata in un epoca dove ascoltavamo di più i nostri genitori o nonni, i loro discorsi ci rimanevano impressi nella memoria, ci raccontavano le  loro esperienze di vita, il loro drammi ma soprattutto le cose belle, romanzate e amplificate.

Ora non è più così, i giovani sono distratti da altre cose, tipo i telefonini, internet, facebook  ed altro, tutto è ammesso e giustificato. La storia e il passato non sono esempi da seguire ma senza la storia non c’è futuro.

Ai miei figli e alla mia nipotina ho cercato di insegnare le cose che avevo imparato dai miei genitori, spero tanto che abbiano recepito qualcosa.

 

Sono contenta di aver avuto l’opportunità di scrivere di questo argomento aderendo ad un corso intitolato: Il romanzo di una vita. A principio ero titubante, non mi andava di scrivere o raccontare le mie cose , poi mi sono detta : ma sì! Mettiti in gioco, sii coraggiosa e così è stato!

Ho iniziato a scrivere e l’ho trovato più facile di quanto pensassi, i ricordi sono venuti a galla man mano che procedevo. Certe cose che pensavo sopite sono riaffiorate, come se una forza interiore avesse voluto darmi una mano a descriverle. È stato bello anche confrontarsi con gli altri e parlare dei propri problemi e le sofferenze che la vita ci riserva.

Sono orgogliosa di essere riuscita a tirare giù due righe, esco arricchita da questo corso, è stata un occasione di quelle che solo ogni tanto capitano nella vita. Quelle evocazioni sono la nostalgia che si ha delle cose liete che sono state e che, rappresentano le vicende più belle della nostra vita…”soffi” che accarezzano l’anima.

Finora  ho raccontato solo storie belle; rammentando quegli episodi e metterli per iscritto è stato emozionante come averli rivissuti.

Per quanto riguarda i ricordi meno belli si tende ad accantonarli, a rimuoverli per non soffrire, ma arriva sempre inopportuno il momento quando bussano senza preavviso, come a volerci ricordare che bisognerebbe fare i conti anche con loro e sarebbe ora di raccontarne la storia.

E’ una voce insistente, come un tarlo che scava nel profondo, che sia giunta l’ora di rompere ogni indugio e vuotare il sacco?

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Cogli l’attimo   Leave a comment

 

Mi capitò quattro anni fa. Erano passati pochi mesi dalla morte di Bruno (mio marito) e mi sentivo giù di corda, demoralizzata. La mia amica Brigitte mi propose di andare a fare una gita di tre giorni a Torino, con un viaggio organizzato. Accettai mio malgrado, perché non ero proprio convinta, non avevo lo spirito giusto per decidere. Di ciò ne parlai con mio fratello Oriano, lamentandomi che mi sentivo triste e sola senza Bruno. Lui mi incoraggiò dicendomi che bisognava vivere il presente e non pensare al passato e avevo fatto bene ad accettare di andare in viaggio, quindi dovevo cogliere l’attimo, e mi citò il famoso motto oraziano che dice “Carpe Diem”, letteralmente cogli il giorno presente, ed esorta a cogliere i doni che la vita ci offre giorno per giorno.

Ricordo che pensai: proprio lui che rimugina tutto mi dice certe cose! Comunque partii. Il terzo giorno avevamo il pranzo libero. Io e la Brigitte cercammo una tavola calda dove mangiare. Dopo averne viste diverse decidemmo per un locale particolare. Entrate, ordinammo due insalate miste, due calzoni ripieni e un litro di birra. Quando il cameriere apparecchiò il tavolo, rimasi a dir poco sbalordita nel vedere scritto sul tovagliolo “Carpe Diem”: la pizzeria si chiamava così!

Ricordai immediatamente quello che mio fratello mi aveva detto. Subito mi pervase un senso di euforia e diventai allegra, contagiando anche la mia anche la mia amica Brigitte, alla quale raccontai tutto. Grazie a quell’episodio finimmo di mangiare in bellezza!

Questo fatto fu un segno? Una coincidenza? Non lo saprò mai! Io so solo che contribuì a sollevarmi il morale. E tornai a casa da Torino più serena.

Di queste cose “strane” (chiamiamole così) a me ne sono capitate parecchie. Accadono e sono inspiegabili irrazionali: forse sono io che le cerco? Io che voglio crederci? Non è facile darsi una risposta.

Però ci inducono a riflettere e a sperare che possa esserci qualcosa oltre la fine della nostra esperienza terrena. La vita rimane comunque un mistero, un gran bel mistero. Penso che la parola più appropriata per poter andare avanti alla “meno peggio” (specie alla mia età) sia “Speranza”.

 

 

 

 

 

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Un sogno o un ritorno?   2 comments

Stanotte ho sognato Bruno.

M’è apparso sulla porta della cucina. Io, tutta contenta, gli sono andata incontro abbracciandolo, e ho percepito la sua presenza come se fosse realmente lì; lui non ha contraccambiato il mio abbraccio, però mi ha guardata con un’espressione compiaciuta e un po’ ironica.

Poi io, rivolgendomi a mio figlio Gianluca (che nel sogno era vicino a me) gli ho detto: “Hai visto che bello? È tornato “papà” così andiamo tutti al mare!”.

Mi sono svegliata con una sensazione d’amore, come se qualcosa fosse riemersa dentro di me. Un’emozione che solo “lui” ogni tanto riusciva a trasmettermi.

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

La mia Prima Comunione   2 comments

Suor Chiara Agnese aveva il compito di preparare noi bambine alla Prima Comunione. Ci educava ad essere buone, a fare tanti fioretti,  perché dovevamo avvicinarci a Gesù con il cuore puro. Nonostante le sue raccomandazioni, non riuscivo a non pensare all’abito che avrei indossato. Il vestito me lo regalò la sorella di mia mamma. La zia Lora abitava a Firenze, non aveva figli, a noi nipotini faceva sempre tanti regali.

Era una bella donna, alta, mora, con un seno prosperoso, indossava tailleur eleganti e portava cappellini all’ultima moda. Me la ricordo sempre con affetto.

La zia scrisse alla mamma comunicandole che aveva comprato il vestito e glielo descrisse. La mamma a sua volta lo descrisse a me ed io ne parlai subito con le mie amichette, spiegando loro com’era.

Allora: era d’organza, scampanato, con le gale, e in rilievo aveva dei nodi d’amore; l’acconciatura era formata da una cuffietta rigida contornata di perline da cui scendeva il velo, la borsina era rotonda di tulle, i guantini di cotone traforati. Naturalmente ero ansiosa di vederlo. Quando la zia arrivò e aprì lo scatolone bianco che conteneva il vestito rimasi a bocca aperta, era ancora più bello di come l’avevo immaginato. Mi sembrava un sogno poter indossare una cosa così splendida!

Me lo fece provare subito, perché temeva per le misure, invece mi andò alla perfezione.

La mamma per farmi apparire più bella mi fece fare la permanente. Fu un vero supplizio, tutti quei ferri caldi sulla testa che mi scottavano… Quando la parrucchiera li tolse presi paura guardandomi allo specchio talmente ero brutta! Sembrava  avessi un grosso cespo di insalata ricciolina sulla testa. Mi pettinò i capelli a boccoli. Tutti a dire che erano belli, io non ero poi così convinta. Allora si usava così…

Inutile dire che il giorno della mia Prima Comunione pensai soprattutto al mio aspetto, Suor Chiara Agnese non era stata poi così convincente. Oppure ero una bambina troppo vanitosa?!

Tre anni dopo la mamma adattò il mio vestito per la prima Comunione di mia sorella Maria Rita. Lo  portò  in lavanderia per una rinfrescatina però rimase comunque un po’ di giallo, si vedeva che era usato. A me dispiacque tanto che la mia sorellina facesse parte di quelle bambine (ce n’erano tante) che indossavano l’abito di seconda mano.

Quel giorno soffrii per lei,  pensai che  ero stata più fortunata ad avere avuto l’opportunità di indossare il vestito nuovo, era un’ingiustizia nei suoi confronti. Però allora i nostri genitori cercavano di risparmiare e riciclare tutto. Non vivevamo in una civiltà consumistica come quella di oggi. Sì, in effetti avevamo meno, ma si apprezzavano di più le cose, c’erano altri valori.

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

I miei Natali   Leave a comment

Da bambina aspettavo con trepidazione le feste di Natale, per me erano un avvenimento! La mamma sin dal primo giorno d’avvento iniziava a comperare i ‘chicchi’ per addobbare l’albero.

I chicchi erano dei piccoli dolci di cioccolato, ossia: babbi natale, animaletti, casine, monetine, torroncini; tutti ricoperti con la carta dorata lucente. La neve la creava lei mettendo del cotone idrofilo sparso sui rami. Le candeline erano vere. Di solito le accendeva lei perché erano pericolose.

Infatti un anno, in assenza della mamma, mio fratello Oriano le infiammò e l’albero prese fuoco.Fortunatamente con l’acqua riuscì a domare il piccolo incendio, ma ormai l’albero era rovinato e quell’anno restammo senza. A me dispiacque molto. Quel Natale privo delle tinte sfavillanti dell’abete mi sembrò triste e scolorito.

La vigilia andavamo tutti alla Santa Messa di mezzanotte nella chiesa grande “la collegiata”.

Era tutto così suggestivo… con l’odore forte d’incenso, l’organo che suonava “Tu scendi dalle stelle”!

Non vedevo l’ora che scoccasse la mezzanotte per vedere il Bambinello posto nella mangiatoia del presepe.

All’uscita della Chiesa ricordo: la notte buia, il freddo pungente, il cielo stellato, un’atmosfera magica, da favola, surreale, mi sentivo così vicina a Gesù Bambino… Grazie forse alle suore che mi avevano preparata spiritualmente.

Il giorno di Natale il pranzo era come un rito che ogni anno si ripeteva sempre uguale a se stesso: la tavola apparecchiata con la tovaglia bianca, i piatti quelli buoni di porcellana decorati con un filo d’oro, i bicchieri a calice. In mezzo il fiasco di vino rosso.

Il famoso Chianti lo bevevamo solo per le ricorrenze più importanti. Il mio papà Gianni diceva che era pregiato, infatti gli altri giorni sulla tavola c’era la bottiglia di vino bianco sfuso.

Io e mia sorella Maria Rita mettevamo sotto il piatto di papà le letterine d’auguri. Ricordo bene la sua espressione compiaciuta mentre leggeva i nostri proponimenti di essere buone, studiose e così via. Finito di leggerle ci dava 100 lire per uno. Poi tutti contenti iniziavamo a mangiare.

Il menù era questo: per primo il brodo schietto, poi i tortelli al sugo di carne, fatti a mano dalla mamma (Che buoni!). Di secondo il pollo, il coniglio e i cardi fritti, per contorno la bieta lessa.

Infine non poteva mancare come dolce il panforte “Sapori Margherita” accompagnato dal vin santo. La festa finiva sempre in allegria specie per noi bambini, anche perché i nostri genitori quel giorno ci permettevano di bere un “goccino”.

Ma non era finita lì! C’era poi l’attesa della Befana.

La vigilia dell’Epifania, mentre noi bambini dormivamo, la mamma disfaceva l’albero e divideva i chicchi in tre piccoli cestini ai quali aggiungeva: befanini (piccoli biscotti fatti da lei di varie forme di animali), arance, mandarini, noci, mandorle, fichi secchi e li metteva ai piedi dei nostri letti assieme ai giocattoli.

Al mattino al risveglio, sorpresa!!! Quanto ben di Dio! E come era stata buona la Befana!!!

Come dice il proverbio che, l’Epifania tutte le feste se le porta via, mi veniva sempre un velo di tristezza, ma poi mi consolavo pensando alle feste successive che sarebbero state quelle pasquali. E anche la Pasqua era altrettanto bella e sentita!

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Il bicchiere mezzo pieno   1 comment

Mi chiamo Annamaria e sono nata sotto il segno dei pesci. Mi sono sempre ritenuta e mi ritengo una persona fortunata non perchè non abbia mai avuto difficoltà, anzi… ma per il fatto che queste le ho sempre superate con ottimismo. Ho un carattere allegro, estroverso, alle volte anche burlone (non per niente ho vissuto in una città famosa per il suo carnevale), sono un’inguaribile sognatrice e mi piace anche cantare. Cerco di vedere le cose positive che la vita ci offre e devo dire che spesso riesco a scorgerle.

Recentemente ho passato un periodo non molto bello riguardo la mia salute. Sono stata ricoverata quasi un mese in ospedale. Ammetto di avere avuto tanta paura. Anche in questo frangente ho guardato la positività della cosa: l’amore dei miei tre figli Paola,Gianluca, Andrea, la mia nipotina Alessandra, gli amici, i medici, i paramedici, la gente che opera nel volontariato.

Esistono davvero tante persone gentili che si prodigano per gli altri, io li chiamo “angeli”, non li dimenticherò mai!  Tutto questo mi ha commossa, ne sono uscita fortificata e con la convinzione che nella vita contano soprattutto gli affetti, l’amicizia, l’amore. Certo, l’esistenza, con i suoi eventi belli o brutti un po’ ci cambia. Io però, penso di essere rimasta dentro di me l’Annamaria di sempre!

 

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Il costumino di cotone   Leave a comment

Annamaria, guarda che bella stoffa ho comperato mi disse la mamma! È a righe celesti come il colore dei tuoi occhi, mia madre cercava sempre di vestirmi di azzurro, diceva che quella tinta si intonava con i miei occhi. La porto dalla Concetta (la sarta) e ti faccio fare un bel costumino!

A me il tessuto piacque subito, soprattutto perchè era di cotone. Fino ad allora avevo portato solo costumi di lana: erano così pesanti dopo aver fatto il bagno… non si asciugavano mai addosso!

Devo dire che ne venne fuori proprio un bel modellino! Sopra aveva un gonnellino corto increspato in vita,  l’orlo era rifinito con un volant. Era il 1957. Avevo 13 anni. Fu l’anno in cui  smisi di portare la coda di cavallo e mi tagliai i capelli. Quando provai il costume per la prima volta, guardandomi allo specchio, rimasi sbalordita. Vidi in me un cambiamento radicale, una trasformazione! Stavo diventando ‘signorina’ e mi garbai parecchio. Ero orgogliosa di me stessa,  non vedevo l’ora di andare al mare per sfoggiarlo e farmi ammirare.

Quell’anno la mamma mandò me e mia sorella Maria Rita per un mese alle colonie marine dalle suore, a Lido di Camaiore. In tutto quel tempo non feci mai il bagno, per paura di rovinare il costume. Mi limitai solo a bagnare le gambe. Adesso mi viene da sorridere pensando a come si può essere sciocchi a quell’età, me che piaceva tanto tuffarmi… Evidentemente tenevo tantissimo al mio primo costumino da “grande”.

Quell’estate segnò il mio passaggio da bambina a ragazza. Che bel periodo… avevo ancora tutto il mondo da scoprire e sognavo ad occhi aperti, quanti castelli in aria…

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

La mia mamma   2 comments

La mia mamma si chiamava Adriana Frigeri. Era nata a Camaiore il 26 dicembre 1919, lei però si considerava del 1920, perché diceva che per solo cinque giorni le davano un anno in più e non era giusto. Era arrabbiata col 1919, lei era del 20, punto e basta!

Adriana è un bel nome, ma a me non piaceva perché la associavo a una signora che, “poverina”, era sempre ubriaca e si chiamava appunto Adriana. Era una bella donna, alta, con i capelli biondi ondulati e gli occhi azzurro chiaro che spiccavano, probabilmente per il contrasto con il rossore delle guance dovuto all’alcol. Quando passava in via di mezzo noi bambini le andavamo dietro per ridere, per gioco, non capivamo la sua disperazione. Si fermava alle varie osterie a bere e, mentre beveva, piangeva e chiamava il suo Paolino, che l’aveva abbandonata per un’altra donna, lasciandola sola coi figli.

Era un dramma, lo so, però a me non garbava che una donna potesse ubriacarsi: mi sarei tanto vergognata se fosse stata la mia mamma! Ed era per questo che quel nome mi urtava.

Essendo mio nonno amante delle opere liriche volle chiamare alcune delle sue figlie con i nomi delle protagoniste. Tant’è vero che per la mia mamma si ispirò all’opera Adriana Lecouvreur di Cilea. C’è anche la famosa Villa Adriana a Tivoli, fatta erigere nel II secolo dopo Cristo dall’imperatore Adriano. Insomma, mamma, il tuo nome era proprio bello!

La sorella di mia nonna, Suor Maria Diomira, era madre generale dell’ordine delle suore di San Francesco. Siccome la mia mamma era una bambina intelligente e brava a scuola, i miei nonni pensarono di mandarla in collegio e darle così la possibilità di studiare gratis. Per cui la spedirono in un convento a Fiesole, sopra Firenze. L’impatto per lei fu traumatico, perse l’appetito e cominciò a dimagrire. Era già gracile di costituzione e divenne l’ombra di se stessa. Era talmente magra che faceva compassione, per questo le suore la portavano in parlatorio quando c’erano dei potenziali benefattori. Per commuovere quella gente dicevano che la ragazzina non aveva né padre, né madre, ed era lì abbandonanta da tutti. Che cattiveria!

Meno male che andò a trovarla la mia bisnonna. Quando la vide si impressionò, tanto era sciupata. Appena tornata a casa andò subito da mio nonno a raccomandarsi di andare a riprendere l’Adriana, altrimenti sarebbe morta. Infatti la mamma diceva sempre che se era viva lo doveva alla sua nonna Annunziata, che le aveva dato tanto affetto e che era stata l’unica persona che le aveva voluto bene durante la sua infanzia.

A quattordici anni andò a lavorare in una fabbrica di calze; sebbene la sfruttassero (allora non c’erano ancora i sindacati) lei me ne parlò sempre bene. Soprattutto sotto il profilo umano, instaurò tante amicizie con le sue coetanee. Poi conobbe il papà e si sposò all’età di 19 anni. Continuò a lavorare finché non nacque mio fratello Oriano. Dopodiché si dedicò completamente alla famiglia. E seppe amministrare bene il menage familiare. Riusciva a spaccare, come si suol dire, un soldo in due; era intraprendente, piena di iniziativa. Se si prefissava di realizzare qualcosa, riusciva nel suo intento, non la fermava nessuno!

Lei era la mente e il papà il braccio. Papà lavorava a Viareggio al cantiere navale, faceva i mobili per gli yacht ed era molto bravo e apprezzato nel suo mestiere, un gran lavoratore!!! Guadagnava bene, però per poter portare a casa qualcosa in più faceva tanti straordinari. Era così buono il mio papà… una pasta d’uomo!

Alla mamma Camaiore stava stretta, diceva che era come una conca dove pioveva sempre ed era per questo che aveva i reumatismi, sognava di andare ad abitare a Viareggio e riuscì a realizzare il suo sogno. Vendette la casa di papà (a lui dispiacque ma, volente o nolente, doveva per forza sottostare al volere di mia madre. Però sono convinta che a lui andava bene così: quello che faceva la “sua Adriana” era ben fatto) e con il ricavato comprò il terreno, fece fare il progetto a un geometra, trovò i muratori e iniziarono i lavori.

Il papà fece le porte e le finestre, per risparmiare, lavorando naturalmente dopo cena. La mamma restava con lui per fargli compagnia e anche da ‘sovrintendente’; quando gli faceva qualche osservazione riguardo il suo lavoro, papà, fingendo di essere arrabbiato, diceva: “Come ti garba dare gli ordini, eh?… L’hai trovato il miccio (somaro) che lavora!” Magari poi intonava una canzone storpiandola con il suo vocione. Ci faceva tanto ridere quando cantava…

Che bello al mattino, quando da piccole io e mia sorella Maria Rita stavamo nel lettone e la mamma ci raccontava la fole!  Ne sapeva tante! A me piacevano soprattutto quelle di Pochettino, Il drago dalle sette teste e Le tre penne dell’uccel pavon. In quest’ultima ci cantava anche qualche canzoncina inerente alla favola. Delle volte ci raccontava la trama del romanzo La mammina di carta. Era un libro che aveva letto da ragazzina e sicuramente le era rimasto impresso perché ne parlava volentieri.

(Sai, mamma, quel libro l’ho fatto rilegare e ogni tanto guardo la Nicoletta, la protagonista del romanzo, raffigurata all’inizio del libro e ricordo come ci descrivevi tutto così bene!)

Mamma sapeva anche tante filastrocche. Quando ci accompagnava a letto tutte le sere ci recitava questa:

“A letto, a letto me ne andai

quattro angeli ci trovai

due da piedi, due da capo

Gesù Cristo dal mio lato

e mi disse che dormissi

che paura non avessi

né di giorno, né di notte

fino al punto della morte”

A me questa filastrocca non piaceva perché c’era la parola morte che mi metteva paura.

Mi piaceva invece molto questa storiella…….

Una mattina un povero somaro andò al macello sbottò in un pianto e disse: Addio fratello!!!Non ci vedremo più, non c’è riparo.

Bisogna esser filosofi, bisogna…via, disse il porco: su non far lo scemo, che forse un giorno ci rivedremo in qualche mortadella di Bologna!!

Carina vero?

Il tempo passò, io crebbi e i nostri rapporti divennero conflittuali: era inevitabile, avevamo due caratteri simili. Tu volevi imporre la tua volontà e io ero una ribelle. Andai in Africa a sposarmi senza il tuo consenso, ma allora non mi fermava nessuno. Mi resi conto più tardi di quanti pensieri t’avevo dato. Una volta mi dicesti: “Annamaria, mi rispondi sempre male! Quando morirò avrai il rammarico di averlo fatto”

Avevi ragione, mamma: ho il rammarico di averti risposto male, però ti ho sempre voluto bene e apprezzata. Mi arrabbiavo soprattutto perché avrei voluto che tu godessi di più gli ultimi anni: ti piaceva la geografia, conoscevi tutto il mondo ma solo sull’atlante geografico. Ti sarebbe piaciuto viaggiare ma ti astenevi dal farlo sempre per la mania del risparmio, oramai era diventato una cosa quasi patologica e io mi arrabbiavo tanto…

Sai, mamma, mi accorgo che invecchiando ti assomiglio anche fisicamente e questo mi fa piacere. Specie al mattino, quando mi guardo allo specchio con i calamai agli occhi (occhiaie), è come se vedessi la tua immagine riflessa, allora ti saluto dicendoti: “Ciao ma’!”.

Spero tanto di rivederti un giorno, insieme al papà.

Pubblicato 21 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Il mio mare   1 comment

Il mare fa parte della mia vita. Da bambina lo osservavo e ne ero affascinata, soprattutto quando era in burrasca. Guardavo rapita i cavalloni, alti, neri, con la cresta bianca spumeggiante, il loro frangersi sulla rena, con violenza, all’istante  il risucchio dell’onda e quel fragore assordante! Tutto questo mi atterriva ma nel contempo mi affascinava per la sua furia e bellezza incredibile!

Definisco “il mio mare” il mar Tirreno e quello Ligure perché fin da quando ero piccola erano e sono nei miei sogni. Lo riconosco dal colore dell’acqua, verde turchese  trasparente , dal paesaggio che lo circonda, con la costa frastagliata che si inerpica rapidamente verso le montagne e le pinete che arrivano fino alla spiaggia.

Mi sono chiesta spesso il motivo per cui sogno il mar  Ligure, visto che ho vissuto la mia infanzia in Versilia. Suppongo sia per il fatto che dal molo di Viareggio si vede il promontorio del golfo de La Spezia. Specie nelle giornate limpide, al tramonto, potevo ammirare all’orizzonte il sole che spariva nel mare tuffandosi dietro il promontorio in un’esplosione di colori!

Chi lo sa, forse il fatto che ho sempre sognato il mare dipende anche da un evento molto particolare. Allora… Inizio col dire che sono stata concepita in una gabina. Ricordo lo sguardo sornione di papà quando rivolgendosi alla mamma, diceva: Ti ricordi Adriana il Bagno Ubaldo?

Eh, sì! ribatteva lei ridendo L’Annamaria l’abbiamo voluta, è per questo che è venuta bene. Ha perfino gli occhi celesti come il mare!

Sapevano benissimo che il colore degli occhi non dipende da dove uno è stato concepito, ma loro volevano così colorire di più il racconto. Sono grata ai miei genitori per avermi resa partecipe delle loro emozioni.Questo bell’episodio ha contribuito a rallegrarmi la vita.

Dimenticavo! Mia sorella Maria Rita recentemente mi ha telefonato per dirmi che, per caso, aveva trovato il famoso Bagno Ubaldo. Si trova al confine tra Viareggio e Lido di Camaiore. Sicuramente il prossimo viaggio che farò in Versilia, andrò a vederlo. Di certo non sarà più com’era nel lontano luglio del 1943, però mi incuriosisce lo stesso andare a vedere questo posto per me significativo.

Il  mare è magico, mi piace la sua musica. Sia che suoni forte agitato, che suoni lieve, quando è appena increspato, o dolce, quando è calmo e si percepisce solo il fruscio della risacca, in qualsiasi modo esso si proponga mi tocca, mi dà sempre delle emozioni.

Ammirandolo anche qui a Senigallia, mi dà un senso di pace, di apertura, di evasione. Osservandolo in lontananza  all’orizzonte dove si scorge la riga che sembra delimiti cielo e mare, si riesce a notare benissimo la rotondità della terra, è fantastico! Insomma, ogni volta mi si allarga il cuore.

 

Pubblicato 20 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

L’Alpino   2 comments

Si chiamava così la moto che papà comprò di seconda mano. Non ricordo se era una Guzzi o una Gilera, rammento che era grigia e sul serbatoio c’era la scritta “Alpino”. L’aveva comperata per necessità, gli serviva per andare a lavorare al cantiere navale Picchiotti a Viareggio.

Viareggio e Camaiore distano circa dodici chilometri e prima della moto quel tratto di strada papà lo faceva in bicicletta. Era così orgoglioso della sua moto! Noi bambini gli chiedevano spesso di portarci a fare un giro e lui ci accontentava volentieri. La mamma sempre apprensiva si raccomandava dicendogli: “Stai attento Gianni! Vai adagio, non farmi stare in pensiero, sei così sbadato!”

In questo aveva ragione, oltre a essere sbadato era anche sicuro di sé; diceva che gli altri dovevano fermarsi, la precedenza l’aveva sempre lui!

Una volta ero con lui, stavamo andando a Viareggio; all’incrocio di Ponte di Sasso un camion aveva la precedenza. Lui avrebbe dovuto fermarsi, invece rallentò convinto di farcela, io da dietro a dirgli: “Fermati papà, non ce la fai… non ce la fai!” E lui: “Ma sì che ce la faccio!”

Come non detto… prese in pieno la targa. L’autista scese dal camion inveendo e bestemmiando come un turco (noi toscani non abbiamo rivali per quanto riguarda le imprecazioni). Il papà, calmo, spense la moto, quindi, rivolgendosi a quell’uomo ridendo, disse: “Occorre che vi arrabbiate tanto… ora ve la sistemo io!” (Allora si usava dare del voi agli sconosciuti).
Con le sue manone raddrizzò la targa. L’uomo ripartì continuando a bestemmiare. Papà tutto tranquillo riaccese la moto esclamando: “Mamma mia quanti moccoli per una targa accozzorata (ammaccata)! Io invece ero diventata tutta rossa per la vergogna, sarei sprofondata volentieri sotto terra.

Una volta dette un passaggio alla mamma. Arrivati a Viareggio mia madre si accorse di avere solo una scarpa, l’altra l’aveva persa per strada. Le risate che ci facemmo quando il papà ce lo raccontò dicendoci: “Per quella babbalocca di vostra madre m’è toccato tornare indietro, e meno male che la scarpa l’abbiamo ritrovata!” E lei: “Non me n’ero accorta, mi s’era addormentata la gamba eppoi le scarpe mi stavano larghe!” e rideva.

Per forza la perse: gliele aveva regalate la zia Lora, la quale aveva un numero in più di scarpe.

L’incidente più grosso l’ebbe quella volta che era insieme al mio nonno materno Fortunato, Fortù (La mia nonna Maddalena, Maddale’, diceva che avrebbe dovuto chiamarsi Sfortunato visto che si faceva imbrogliare da tutti. Ma questa è un’altra storia!) Ad un incrocio andò a sbattere contro una macchina americana scoperta, guidata da una bella bionda. Mio nonno si ruppe il setto nasale, il mio papà solo qualche graffio. Quando andai a trovare mio nonno in ospedale mi apostrofò dicendomi “È tutta colpa di tuo padre s’era incantato guardare la bionda, per questo è andato a sbattere”

L’assicurazione di quella donna risarcì tutti e due, per cui fu colpa di mio padre. Ma nessuno riuscì a persuadere mio nonno del contrario, lui rimase con la convinzione che l’incidente era avvenuto a causa della distrazione di papà, per ammirare la bionda dai capelli lunghi!

In seguito papà vendette l’Alpino e comprò una Vespa e anche con quella ebbe una serie di disavventure, per fortuna non molto gravi. Comunque lui rimase dell’idea che gli altri dovevano fermarsi!

La mamma scherzando diceva che il papà era un po’ matto: “È tutta una razza!” esclamava ridendo!!!

Ripensandoci… i miei genitori erano due “toscanacci” mattacchioni. Avevano il senso dell’umorismo, ridevano, vedevano il lato comico anche nelle situazioni serie. Devo dire che questa caratteristica me l’hanno trasmessa, anch’io cerco di sdrammatizzare e spesso mi prendo in giro facendo dell’ironia.

Il ricordo più bello che ho dell’ “Alpino” fu quella volta che papà mi portò a Lucca passando dal Montemagno : che sensazione, giù per le curve a tutta velocità, i capelli al vento, la brezza sul viso, ed io aggrappata al mio papà!

23 giugno 2013

Caro papà, oggi è il tuo compleanno, auguri! Quanti anni avresti compiuto? Sei nato nel 1914 per cui avresti avuto 99 anni ! Domani sarebbe stato anche il tuo onomastico: San Giovanni! Ti ricordo sempre con tanto affetto sai…ciao papà!

Dicembre 2013

Hai visto papà! Chi l’avrebbe mai detto il tuo raccontino ha vinto un premio letterario!

Pubblicato 20 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized

Benvenuto   5 comments

Benvenuto nel mio blog!

Pubblicato 20 novembre 2011 da Anna Maria Berni in Uncategorized